Disuguaglianza di genere

Disuguaglianza di genere

Consiste nella disparità sostanziale di trattamento tra uomini e donne. L'accesso delle donne agli stessi diritti formali non garantisce infatti anche l'accesso alle stesse opportunità. 

 “Le disparità di genere costituiscono uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo sostenibile, alla crescita economica ed alla lotta contro la povertà.” (Agenda 2030 ONU).

  1.   I dati sulla disparità’ di genere.

Una interessante indagine del Global Gender Gap Report 2020 del World Economic Forum (WEF) ci mostra una società attraversata da disparità di genere.

 Si afferma, infatti, che “Nessuno di noi vedrà la parità di genere nella propria vita e probabilmente nemmeno molti dei nostri figli.”

L’Italia si posiziona al settantaseiesimo posto, tra gli ultimi posti in Europa, sui 153 Paesi analizzati. Tale rapporto fa riferimento alla partecipazione, opportunità economiche, rendimento scolastico, salute ed empowerment politico.

Per quanto riguarda il gender pay gap, ossia il divario retributivo tra donne e uomini, in Italia a parità di mansioni le donne guadagnano meno degli uomini.

Il tutto risulta ancora più complesso se si fa riferimento all’ulteriore difficoltà derivante dalla possibilità di conciliare vita professionale e privata. La cura dei figli e degli anziani, a causa di un retaggio culturale difficilmente superabile, è ancora oggi demandata esclusivamente alla donna.

Altro dato interessante è quello raccolto dall’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere in cui emerge un divario occupazionale del 74,3% tra donne di 25-49 anni con figli in età prescolare e donne senza figli. Tali rilievi hanno spinto la Commissione Europea alla adozione di una Gender Equality Strategy 2020-2025, finalizzata alla promozione dell'uguaglianza di genere nella ricerca e nell'innovazione, prevedendo anche direttive vincolanti, applicabili in tutto il mercato del lavoro.

In Italia, l’ultimo rapporto Istat fotografa gli impatti della pandemia Covid-19 ed in relazione alla questione di genere, nonostante il blocco dei licenziamenti, si evidenzia come su 101mila lavoratori che hanno perso il lavoro a dicembre (-0,4% rispetto a novembre), ben 99 mila sono donne e solo 2mila sono uomini.

  1.   Le leggi nel tempo : il  lavoro femminile.

Il primo intervento in materia risale al 1902 quando l’Italia varo’ la legge sul lavoro femminile, concedendo alle lavoratrici quattro settimane di riposo (non pagato) alle puerpere. Inoltre, in tema di retribuzioni equiparava le lavoratrici fra i 16 e i 21 anni, in capacità e abilità (e quindi con possibilità di percepire uno stipendio), ai lavoratori con meno di 15 anni. Tale legge vietava l’impiego di lavoratrici in alcuni lavori ritenuti "pericolosi" ossia lavori ideologicamente ritenuti incompatibili con le attitudini femminili.

Successivamente, nel 1934, anche il R.D. n.653 del 26 interveniva in tale materia con la “Tutela della maternità delle donne e dei fanciulli”(Gazzetta Ufficiale 27 aprile 1934, n. 99).

 La nostra Costituzione, all’art. 37, sancisce che la donna può accedere a tutte le cariche professionali e agli impieghi pubblici senza alcuna eccezione.

Nel 1963, con la legge n.27 del 1963, veniva finalmente introdotto il “Divieto di licenziamento delle lavoratrici a causa di matrimonio”, prevedendo la nullità delle clausole, contenute nei contratti individuali e collettivi, o in regolamenti, aventi ad oggetto la risoluzione del rapporto di lavoro delle lavoratrici in conseguenza del matrimonio.

Altra tappa fondamentale si è avuta con l’introduzione dell’art. 15 legge 20.05.1970, n. 300 con la previsione del divieto di qualsiasi atto discriminatorio. (G.U. 27 maggio 1970, n. 131- Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento)

Successivamente, la Legge n. 903 del 1977 “Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro”(Legge Anselmi), in applicazione del dettato costituzionale (artt. 3 e 37 della Costituzione) ed in accoglimento dei principi elaborati dalle direttive comunitarie riguardanti il profilo della discriminazione per motivi di sesso ( dir. n. 75/117 del 10 febbraio 1975, in materia di parità retributiva; dir. n. 76/207 del 9 febbraio 1976, in materia di uguaglianza nelle condizioni di lavoro;dir. n. 79/7 del 19 dicembre 1978 in materia di parità di trattamento nei regimi legali di previdenza e assistenza sociale) conferisce la massima estensione al divieto di discriminazione dichiarando nullo ogni patto o atto relativo allo svolgimento del rapporto di lavoro che rechino in qualche modo pregiudizio al lavoratore a causa del sesso (artt. 1, 2).

Recentemente, inoltre, la legge Golfo- Mosca del 2011 ha permesso di introdurre un obbligo per le società quotate di riservare un terzo dei posti nei board di controllo alla rappresentanza femminile, creando la prima forma di quota di genere nei CdA .

Queste norme, almeno nelle intenzioni, pongono la donna su un piano di sostanziale parità nel lavoro e quindi nella società.

Tuttavia, i dati sono allarmanti e ci mostrano che il divario non è stato ancora colmato. Tale divario, oltre ad incidere nel contesto lavorativo, in termini di parità tra uomo /donna, produce evidenti conseguenze anche all’interno del contesto familiare.

  1.   I dati sulla violenza di genere

La violenza contro le donne è un fenomeno ampio e diffuso: si contano ad oggi oltre 1.600 uccisioni di donne registrate nel corso del decennio 2008-2018 , il picco più alto di omicidi, ben 179, si è verificato nel 2013.

Ancora oggi in Italia si parla di episodi di discriminazione e violenza dentro le mura domestiche.

La violenza domestica è caratterizzata da una serie continua di azioni diverse, finalizzate a ottenere il dominio e il controllo  di un partner sull’altro, attraverso violenze psicologiche, fisiche, economiche, sessuali a causa di una sovrastruttura ideologica di tipo patriarcale.

Quando la violenza fisica degenera nella sua forma più grave si parla di femminicidio. Il termine “femminicidio” è un neologismo che contiene una serie di informazioni ben precise: ci dice il sesso della vittima (una donna), quello dell’assassino (un uomo), ma altresì ci dice il motivo dell’uccisione (una donna uccisa perché donna, in quanto donna) .

  1.   Le leggi nel tempo: la  violenza di genere.

Non tutte le uccisioni di donne possono essere considerate "femminicidi", e nel nostro sistema penale non è prevista una autonoma figura di reato di "femminicidio", che sanzioni l' uccisione di una donna per ragioni di genere. Indubbiamente, al riguardo, un elemento sintomatico di questa figura delittuosa può essere individuato nella natura della relazione tra la vittima e l’autore del reato, ed infatti, spesso,  l’autore del delitto è il partner attuale, o il precedente, o un familiare (inclusi i figli e i genitori),  in altri casi egli è una persona  vicina: amico, collega, ecc.

Vi sono, tuttavia, fattispecie delittuose riconducibili ai c.d. reati spia della violenza di genere: maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.); atti persecutori(art. 612 bis c.p.), violenza sessuale (artt. 609 bis , 609 ter, 609 , 609 octies c.p.).

Al fine di rafforzare la tutela della donne vittime di violenza di genere, è stato introdotto il cd. “Codice Rosso”, con legge n. 69/2019 (recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”) ,  entrato in vigore il 9 agosto 2019, che ha previsto l'inasprimento delle pene irrogate per alcuni reati, l'introduzione di nuovi, e una serie di interventi nel codice di procedura penale, volti a proteggere la persona offesa. Ciò è sintomatico di una sempre maggiore attenzione al tema della tutela delle donne.

In sede civile, invece, sono stati introdotti dalla legge 154/2001 gli articoli 342-bis (Ordini di protezione contro gli abusi familiari)e 342-ter (Contenuto degli ordini di protezione) del codice civile.

Si tratta di misure di protezione della vittima, contro la violenza nelle relazioni familiari, in grado di fornire un sistema di tutela contro il fenomeno della violenza domestica anche quando sussista soltanto una accertata situazione di tensione e non necessariamente un reato.

Anche a livello europeo, la Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011 (Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica) condanna ogni forma di violenza domestica e di genere, fornendo altresì, agli Stati, strumenti di prevenzione e tutela e di contrasto alla discriminazione. È il primo trattato giuridicamente vincolante in Europa contro le violenze sulla donna, specificamente diretto alla prevenzione, protezione delle vittime e criminalizzazione dei responsabili. La direttiva,infatti, pone l’accento sulla violenza di genere, intesa come violenza diretta contro una persona a causa del sesso. 

Tuttavia, lo scorso 20 marzo la Turchia ha lasciato la Convenzione di Istanbul, di contrasto alla violenza contro le donne. Erdoğan non ha fornito alcuna giustificazione in merito a tale scelta. Sembrerebbe che abbia ceduto alle pressioni dell’ala più radicale e tradizionalista, che considera l’emancipazione femminile ostacolo all’unità familiare.

Conclusioni 

Da quanto esposto è evidente come le disparità di genere rappresentino un danno per tutti (uomini e donne) perché incidono sulla crescita economico - sociale di un Paese. 

La garanzia di effettività delle tutele parte soprattutto da noi affinchè le tutele esistenti e regolamentate non diventino carta straccia e, nel tempo, possano dar vita a nuovi contenuti capaci di regolare una società in continuo movimento.

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